di Giuseppe Longo
Ottant’anni fa moriva a Nimis Tita Gori. Era, infatti, il 24 maggio 1941 quando calava la sera sulla laboriosa giornata del grande artista, già ricordato anche nel 2020 in occasione del secolo e mezzo dalla nascita con il progetto “Tita Gori 150” messo a punto dal Comune di Nimis per rendere omaggio al pittore che lasciò molte opere nelle Chiese del paese pedemontano, ma anche in altre località friulane e slovene. Ricordo che l’opera principale oggi è custodita nell’antica Pieve dei Santi Gervasio e Protasio (una sua pittura l’anno scorso fu addirittura pubblicata a corredo di un importante articolo dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede), mentre il ciclo pittorico più ampio si trovava nella Comparrocchiale di Santo Stefano in Centa, purtroppo demolita in seguito al terremoto del 1976. La precedente iniziativa con cui la Civica amministrazione aveva onorato l’illustre figlio di Nimis era stata promossa in occasione del cinquantesimo anniversario della morte con la stampa per i tipi delle Arti Grafiche Friulane di un bel libro, “Tita Gori e i Giardini del Paradiso”, del giornalista e critico d’arte Licio Damiani (Premio Epifania 2020), con la mia premessa, quale amministratore comunale di allora – fotografie di Marco Codutti e Bruno Fabretti, progetto grafico Silvia Toneatto -, e con la prefazione di Gian Carlo Menis che, all’epoca, era direttore del Centro regionale di catalogazione e restauro di Villa Manin di Passariano.
Tita Gori (1870-1941)
«Quello di Gori – scriveva nella bellissima monografia Licio Damiani – non è un realismo drammatico che nasce dall’analisi delle difficili condizioni storiche e sociale di una gente. Non è, la sua, una pittura-verità, la pittura-documento dei naturalisti, carica di intenti di denuncia, rivelatrice di brutalità e miserie. E’ il realismo, invece, che scaturisce dal sogno, o dall’illusione, di un rapporto armonioso fra l’uomo, la terra, la natura; un realismo che ha come fondamento un innocente spirito religioso, capace di appianare le fratture esistenziali e di raggiungere un equilibrio senza tensioni. Appare evidente, da tale premessa, come l’opera di Gori viva in un clima artistico-intellettuale conosciuto, nella prospettiva storica, come “preraffaellismo”. Un movimento nato a Londra una ventina di anni prima della venuta al mondo di Tita Gori, il quale prendeva a modelli «vecchi montanari e barbuti mendicanti, donne giovani e anziane, e frotte di bambini del paese, mentre per le Madonne sceglieva preferibilmente la propria sposa». E in che cosa si traducevano? «I dipinti di Tita Gori – sono ancora le parole di Damiani -, tutti di soggetto sacro, hanno la freschezza aspra e lieve delle fioriture primaverili. Le sue opere ornano moltissime Chiese del Friuli. Modesto pittore campagnolo, amava definirsi. Certamente fu il più sensibile alle istanze locali fra gli artisti della sua epoca, in quanto attentissimo a cogliere il sentimento vivo di religiosità semplice, umile, a interpretare l’animo della propria gente, in mezzo alla quale scelse di vivere. La pittura di Gori sembra davvero tradurre figurativamente il detto evangelico sui gigli dei campi e sugli uccelli dell’aria, sull’abbandono totale a una fede sgorgante purissima dal cuore. Tutto ciò si risolve in immagini morbide, sgargianti, dai tratti come pastellati, sboccianti tuttavia su un fondo di solido realismo “paesano”».
Una nuova occasione, dunque, per rendere ancora un doveroso omaggio a Tita Gori, che rappresenta una sorta di ulteriore risarcimento per quanto è stato perduto della sua arte. «Esplosivo, caterpillar e ruspa fecero sparire in breve campanile e Chiesa, senza nulla risparmiare, nulla salvare; non rimase che lo spiazzo di quella che fu la “centa” di Nimis, ove sorgeva una volta la Chiesa che per secoli era stata al centro della vita e della storia del paese», scriveva severamente monsignor Pietro Bertolla – illustre studioso morto in India e che ha lasciato al suo paese una monumentale “Storia di Nimis” – in un prezioso volumetto che volle dedicare dopo il sisma, era il 1978, proprio alla Chiesa di Santo Stefano, per «tramandarne la memoria alle più lontane generazioni».
«D’un tratto, complice è ovvio il terremoto che sconvolse mezzo Friuli – osservavo con rammarico nel 1993 nella premessa al citato libro “Tita Gori e i Giardini del Paradiso” -, si è perso così un patrimonio inestimabile, per la salvezza del quale tanto si era prodigata una figlia dell’artista, la compianta Lucia, unitamente al consorte senatore Tiziano Tessitori, il quale il 21 novembre 1971 aveva avuto assicurazione dalla Direzione generale delle antichità e belle arti che l’anno successivo il Ministero si sarebbe interessato per una perizia di spesa per le opere di restauro necessarie a ridare funzionalità alla Chiesa. La Comparrocchiale, per motivi di stabilità e sicurezza che fecero discutere, era infatti chiusa al culto dal 7 ottobre 1968». «Il giorno antecedente, prima domenica di ottobre – annotava ancora il sacerdote-storico -, vennero cantati i Vesperi solenni della festa della Beata Vergine del Rosario. Questo canto fu sentito come un addio alla Chiesa che per secoli era stata centro e focolare della vita cristiana del paese”. E così purtroppo fu. Damiani, a tal proposito, parla di una perdita che si «sarebbe potuta evitare» e Menis, riferendosi proprio agli affreschi di Tita Gori andati perduti, rincara affermando che sono stati «purtroppo insipientemente distrutti». Ma questa è storia esattamente di 45 anni fa che rievoca una vicenda dolorosa “figlia” di quel tempo, di un momento particolare, difficile, alimentato dalla paura, tanto che ogni possibile fonte di pericolo dovesse essere quanto prima eliminata. E così a farne le spese fu proprio anche la Chiesa di Centa.
L’affresco pubblicato dall’Osservatore.
—^—
In copertina, la Chiesa di Santo Stefano in Centa distrutta dopo il terremoto: qui c’era il ciclo pittorico più grande di Tita Gori.